Novembre 2022 – Kampfar

 

Anche quest’anno, infine, ci siamo quasi: la processione di diavoli e demoni guidata da torce così tanto familiari da farci sincero spavento nella somiglianza ai nostri volti si sta per spegnere, al termine del nostro lungo viaggio all’interno del 2022. Novembre conclusosi mezzo mese fa segna difatti una cosetta o due: la prima è che siamo chiaramente all’interno del penultimo rendez-vous mensile per l’annata; la seconda è che tra altre due settimane ogni verdetto su quelli che saranno a quel punto gli ultimi trecentosessantacinque giorni di musica oscura che trattiamo da queste parti con insana fedeltà sarà tirato.
Ma oggi siamo qui, innanzitutto e soprattutto, per celebrare ancora una volta come merita qualcosa che ha già ricevuto il suo spazio monografico come disco della settimana giusto qualche appuntamento fa, e che nonostante scalpitava (rigorosamente con zoccolo cavo!) per essere descritto e supportato anche dal resto dello staff. Chiaro: quel “Til Klovers Takt” dei Kampfar che sarà annunciatamente tra i migliori dischi dell’anno in assoluto non poteva non essere il disco del suo mese d’uscita. E dunque l’undicesimo figlio prediletto dell’annata ancora in corso vi viene descritto ad otto mani tonde prima che seguano altre tre nomine: due di Finlandia (nonché due debutti, come sempre più spesso sembra accadere in questo tipo di appuntamenti) ed una rarità di genere su queste pagine che da troppo tempo a questa parte riescono a trovare purtroppo pochissimo nuovo Neo-Folk di grande qualità da sottoporvi…

 

 

[…] La ångest, l’angoscia che si tocca con mano in “Til Klovers Takt” è ancora figlia della crisi profonda ed intimistica che porta nel 2019 alla realizzazione del fortunato “Ofidians Manifest”, di cui il nuovo album è fratello ancor più notturno ed atmosfericamente raffinato, e al contempo viralmente brutale – e ciononostante tutta nuova e superiore perché figlia al contempo del suo stesso superamento e dell’impiego di questa forza motrice come qualcosa d’altro e diverso, sempre reinventato. E non sorprende dunque che ogni disco dei Kampfar all’ascolto -quest’ultimo aureo compendio non escluso- così come quando si dice che una certa band può essere ritenuta una garanzia, sembri e suoni come fosse stato scritto da solo – come se si fosse scritto da sé o da strane, ultraterrene forze che vanno oltre quelle dei suoi autori […].”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

La minaccia tentacolare e insidiosa di “Ophidians Manifest” si inscurisce sempre di più e passa dall’essere un tormento interiore al sorvolare come un’ombra vallate e montagne segnate da paure e credenze, in una risalita dagli inferi verso quelle terre di Norvegia da cui i Kampfar sono venuti, per scoprire qui paesaggi parimenti infuocati da orde di fanatici e carovane dell’orrore. Sotto la tremolante luce di una luna che si disperde nelle foschie della nebbia, “Til Klovers Takt” scatena un compendio sbalorditivo di diavolerie e inni mortiferi, in una dimostrazione di classe e capacità compositiva che non ha eguali: l’esperienza pluridecennale dei Kampfar all’ombra delle puntute corna della musica più pagana si carica di una sempre rinnovata brama di nuove soluzioni, in sei brani che tuonano e impazzano a destra e a manca, ognuno di una grandezza monumentale, ma tutti insieme vibrando nella sentita estasi della danza che beffarda si avvicenda in copertina.”

Se penso al Black Metal nel 2022 il nome in cima alla lista non può che essere Kampfar, band che anche in questo nuovo disco riesplora i canoni del genere andando a migliorare ulteriormente quel lato oscuro e inquietante che da anni li contraddistingue. In un’annata qualitativamente piuttosto povera per il sottoscritto risalta ancora di più una formazione in grado di comporre e strutturare un album così variegato e allo stesso tempo di così facile fruizione, ricco di melodie e layer strumentali che consentono alle produzioni di crescere ascolto dopo ascolto. All’interno della tracklist troviamo le ricche sperimentazioni vocali di “Fandens Trall”, gli accentuati richiami folkloristici dell’opener “Lausdans Under Stjernene”, ma anche qualche piccolo regalo per i più nostalgici come “Flammen Fra Nord”, brano frontale di pura malignità dove il cantato di Dolk ci scaraventa in ambientazioni disperate e maniacali come raramente accaduto. Semplicemente infallibili.”

“Ottusamente forzoso nel suo funereo incedere, deliberatamente poco rifinito per stile formale, e soprattutto maledettamente necessario; il paragone farà anche mettere mano alla rivoltella a molti ma, tralasciando l’ovvio quanto abissale scarto qualitativo, al nono capitolo i Kampfar potrebbero aver composto il loro personale “St. Anger”, nel senso di un lavoro che si arroga il diritto di fare a brandelli ogni precedente tassello lasciando integro solo il nocciolo, per definizione scomodo e indigesto, dei suoi autori. Non troverete qui la carica diabolica di “Djevelmakt” presente giusto a sprazzi su “Flammen Fra Nord”, né il luciferino richiamo di “Ofidians Manifest” il quale rivive soltanto nella grandiosa “Rekviem”: tutti deboli appigli sacrificati in virtù di pezzi più lenti, più dilatati ed innaturali come il respiro di chi già stringe la mano alla Nera Signora. Dal canto suo, chi scrive non sa ancora se augurarsi un vero seguito sempre su questa linea oppure una svolta che lo renda in futuro un unicum nel percorso dei norvegesi, ma consiglia comunque di godersi “Til Klovers Takt” in quei momenti dove un dolore passeggero lascia posto alla solita perenne negatività, e ci si ritrova da soli a fare i conti con quegli scheletri che ballano nell’armadio di tutti noi.”

Il primo debutto fresco di giornata, nonché primo frutto finlandese del duo di primizie da sottoporvi: Licht Des Urteils è un nome che oggi come oggi dirà poco ai più, ma a seguito di un inavvertito demo del 2019 e di un interessante primo full-length del calibro di “Uhraamo” (patrocina Purity Through Fire senza che suoni la solita cosa Purity Through Fire), siamo a dir poco certi che nel giro di un’altra uscita al massimo se ne sarà detta più d’una al riguardo…

Il debutto dei Licht Des Urteils è un esempio cristallino di ciò che una giovane band Black Metal agli esordi dovrebbe essere qualche volta di più: spregiudicatezza, sincerità, scelte impulsive dettate dalla più pura ispirazione e una discreta dose di malsano divertimento. Il sound di “Uhraamo”, pur non radicandosi strettamente ai dettami troppo spesso pedissequamente rispettati del Finnish Black Metal, non disdegna alcune tendenze territoriali fra una sporcizia sonora che allestisce un denso sostrato di fischi e sfrigolii e un riffing spurio ma ispirato, che riesce ad mescolare il volto tagliente e adrenalinico della schiacciasassi “Kuollut” ad una naturale tendenza a più sabbatici occultismi, che tra giri di basso e groove spiraleggiante rivelano sottopelle una spiccata capacità evocativa: brani come “Color Out Of Space” e “Pagan Altars” suonano a tratti come una versione neanche troppo suomi dei Cultes Des Ghoules o dei migliori Mortuary Drape e portano a sperare in un malevolo e sulfureo futuro che possa portare i ragazzi di Tampere in questa direzione bagnandola ancor più di personalità.”

Altra Finlandia, altro giro, ma tutt’altro suono: Sorgetid, di nuovo, non dirà granché a quasi nessuno… Ma nominare anche solo Vargrav, Druadan Forest, Marras, Grieve ed Olio Tähtien Takana tra i diecimila altri possibili dovrebbe dare una chiara ed univoca indicazione su chi sia il soggetto che figura incappucciato nella xeroxatissima copertina dal gusto tutto d’antan dell’affilatissimo “Natt Av Tusen Dödsfall” (Werewolf Records)…

“Produce come al solito il compare Werwolf, eppure bastano pochi secondi di quel sound mefitico ed un’occhiatina all’adorabile artwork per immaginarci il buon V-Khaoz, dandy sofisticato solitamente amante delle sinfoniche frivolezze, ora contagiato dal bestiale morbo vampirico diffusosi nella vicina Svezia a partire dai morsi dei qui ormai ben noti -nonché beneamati- cacofonici ragazzacci di Shadow Records. Le vesti logore di questo “Natt Av Tusen Dödsfall” calzano davvero bene al Nostro, in passato troppo spesso vittima del suo stesso grandeur in progetti anche assai fortunati presso il medio-grande pubblico ma dal gusto compositivo non sempre all’altezza di simili ghirigori, mentre col neonato monicker è sufficiente intingere le medesime melodie in maleodoranti frequenze lo-fi per cavar fuori dal cilindro un solidissimo full-length di puro ma nondimeno ottimo mestiere, di quelli insomma su cui costruire nuove strade e consolidare la propria posizione tra i nuovi condottieri di un panorama competitivo e spietato quale è sempre stato quello finnico.”

Con la marziale puntualità che giusto il Neo-Folk può vantare, il letterario e autoriale “Hegemonikon” (“A Journey To The End Of The Light”) segna il ritorno ormai annuale del progetto Rome. Non la prima volta che vi si parla di quello che è senza timore di smentita il più profondo e maturo svecchiamento di un genere che sempre più cliché e sempre meno idee ha da offrire: ma qui si continua a fare la differenza ad ogni giro, questo non eslcuso.

In un presente che mette in pericolo certezze, valori e serenità che si credevano indiscutibili, non è nella graniticità della storia che Jérôme cerca una risposta, ma in un intimo flusso di pensieri che possa dare un significato ad un viaggio che sembra condurre sempre più distante dal calore della luce. I toni soffusi di “Hegemonikon” si permeano di riferimenti archetipali e mitologici che possano fungere da lanternino di assoluto nel mare in tempesta e le ballate dalla semplicità acustica si sciolgono su tappeti ritmici minimali, al ritmo di loop elettronici, estrema conseguenza delle esperienze maturate nel periodo di “The Hyperion Machine” e della tendenza cantautorale soprattutto delle ultime prove in studio. In 36 soli minuti i Rome mettono a nudo un approccio raramente così scarno, vuoto e al contempo svuotante: ricco di sotterranee scelte preziose e non scontate, di dettagli sussurrati e figli del passato come gli ottoni di “Le Ceneri Di Heliodoro” che borbottano qua e là, o della canzonata tendenza crepuscolare dal ricordo “Nos Chants Perdus”, il nuovo lavoro del progetto lussemburghese, probabilmente fin troppo prolifico in quest’ultimo lustro, rivela un lato della sua poeticità dal carattere più dimesso e introverso, ma sempre in grado di emergere e rapire.”

Null’altro da segnalare in chiusura, in vista dell’ultima mensilità che chiuderà il cerchio aperto quasi dodici mesi or sono, se non il consiglio come sempre spassionato di un EP che ha colpito in vista di ulteriori sviluppi il sottoscritto: l’omonimo mini-album dei francesi Houle, un piccolo uragano di salsedine che, rilasciato com’è da Les Acteurs De L’Ombre ricorda da vicino (sebbene non proprio stilisticamente) quando nel 2012 a cielo invece serenissimo ma ad abissi neri come il carbone più saturo l’etichetta praticamente neonata se ne uscì con i The Great Old Ones di “Al Azif”. Due anni più tardi sarebbe stata la volta dello spartiacque di maturazione “Tekeli-Li” e della conquista di schiere di appassionati benché su strade differenti da parte di band e label
Ma digressioni e ricordi del passato siano messi al bando in una simile cornice! Anche perché quando un album come “Með Hamri” dei Misþyrming è da due giorni interamente ascoltabile, non bastasse o fosse già esaurita la scoperta del poker mensile appena gettato sul tavolo, ed un nuovo Hate Forest intitolato “Innermost” bello che rilasciato tra quattro (ormai affezionati al disco del natale dopo “Hour Of The Centaur” di due anni fa), ogni sentimentalismo passatista di sorta è come minimo bandito dalla discussione.

 

Matteo “Theo” Damiani

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